Sicuramente molti di noi ricordano che negli anni ’90 scoppiò un grosso scandalo derivato dalla diffusione della malattia di Creutzfeldt-Jakob (CJD), meglio nota come BSE, la quale, essendo una malattia trasmessa dal bovino all’essere umano, è definita zoonosi.
La BSE ha causato la morte di decine di persone e per ben dieci anni è stata minimizzata ed anche occultata dal governo inglese poichè “l’abusata norma di non <<allarmare>> i consumatori, se ne parlava solo negli ambienti scientifici” (Moriconi E., Le fabbriche degli animali, “mucca pazza” e dintorni, 2001, p. 157).
Stiamo parlando, tuttavia, di una trasmissione che si è riusciti a contenere in quanto la trasmissione era dovuta al consumo di carne, sebbene questo consumo potesse essere avvenuto anche diversi anni prima del manifestarsi della malattia, quindi un’epidemia molto lontana da quella che stiamo vivendo ora dove è fonte di contagio il semplice contatto tra persone.
La BSE non ha insegnato molto, così come i virus derivanti dai suini e dai volatili e non ha messo minimamente in discussione l’idea stessa di allevamento, nonostante, come sottolinea Roberto Marchesini, “gli allevamenti intensivi sono bombe biologiche e basterebbe un piccolo incidente o un effetto imprevedibile per causare un danno inimmaginabile. Del resto, quando si ricavano alimenti dalla carne di animali infetti o dagli escrementi, quando si provoca promiscuità di patogeni in intere popolazioni di animali defedati in transito in più paesi, quando si creano monocolture di animali tutti uguali, quando non si tiene conto degli effetti dei tossici che impudentemente si spargono nell’ambiente, non ci si può attendere nient’altro” (Oltre il muro: la vera storia di mucca pazza, 1996, p. 191).
Successivamente l’epidemia di BSE l’Europa non ha, per nulla, preso in dovuta considerazione l’allevamento come fonte di rischi di trasmissione di virus, e non solo, basta pensare al devastante impatto ambientale, ma ha messo in piedi un’operazione molto accattivante, attraverso il rafforzamento del concetto di benessere animale.
Il caso BSE ha fatto capire, infatti, ai consumatori, che dalla salute dell’animale deriva quella dell’essere umano e non c’è nulla di più rassicurante che pensare ad un animale che gode di uno stato di benessere tale da non ammalarsi e non trasmettere malattie.
Sognare è lecito ma non in questo campo.
Per rassicurare tutti, l’Unione Europea ha messo a punto diversi strumenti, tra cui rientrano: le normative, la creazione di un’Authority, l’EFSA(European food safety Authority) – che è formata da esperti indipendenti –, la creazione, nel 2017, della piattaforma sul benessere animale e l’attuazione di diverse strategie.
Quest’idea di organizzazione e di messaggio rassicurante, che il sociologo Ulrick Beck in Power in the global age: a new global political economy, chiama “irresponsabilità organizzata”, ha sicuramente raggiunto l’obiettivo di spegnere l’incendio della percezione del rischio nel mangiare carne ma non ha certamente posto fine all’incertezza dovuta ai rischi che dall’allevamento di animali derivano.
Come sappiamo, e l’epidemia di Coronavirus- Covid19- di questi giorni ne è la riprova, nelle situazioni d’incertezza la scienza rivela tutti i suoi limiti basta solo ricordare le epidemie di origine zoonotica più recenti, ossia l’influenza aviaria e l’H1N1 che hanno ucciso 284 mila persone; per non parlare della spagnola che all’inizio del ‘900 ha ucciso 50 milioni di persone (Davis M., The Monster at our Door, The global threat of Avian Flu, 2007).
Come aveva dichiarato, Fabrizio Pregliasco, virologo dell’Università di Milano,“ci sono 3 varianti che circolano in Cina e Usa da tenere sotto controllo: si tratta di H5N6, H7N9 e H9N2, virus contratti da persone che erano venute in contatto con pollame vivo. I volatili e i suini fanno infatti da catalizzatori del ceppo virale, come è accaduto nell’ultima pandemia del 2009″. (Influenza. Cento anni dalla Spagnola, Ecco tutti i virus da tenere sotto controllo, 9/1/2018, www.corriereadriatico.it).
Sembra la profezia di Nostradamus ma è solo studio della virologia nel corso dei millenni.
Già nel 2004 il giornalista Edoardo Altomare nell’articolo Virus, Le nuove minacce, scriveva:“Anche il famoso storico della medicina Mirko D. Grmek, era convinto che, più che i mutamenti del genoma dei microbi, sono i cambiamenti umani (agricoltura, zootecnia, produzione alimentare intensiva) a favorire la diffusione degli agenti infettivi” (Panorama 14/9/2004).
In questo contesto la gestione del rischio sembra che sia stata demandata alla standardizzazione delle procedure, ma nelle normative che riguardano l’allevamento degli animali, il loro trasporto e la macellazione non compare mai il richiamo al principio di precauzione, che, in Europa, è un principio trasversale applicato a tutti quei settori da cui possa derivare, da qualsiasi attività, un rischio per l’uomo, l’ambiente e gli animali, che dell’ambiente fanno parte.
Nella normativa sugli Ogm, ad esempio, il principio di precauzione ha trovato ampia applicazione, anche nella recente direttiva UE 2015/412, che prevede la possibilità degli Stati Membri di vietare o limitare la coltivazione di organismi geneticamente modificati sul loro territorio.
“In conformità di tale quadro normativo, per ottenere l’autorizzazione all’immissione in commercio dell’Unione, ciascun OGM destinato alla coltivazione deve essere sottoposto ad una valutazione del rischio ai sensi dell’allegato II della direttiva 2001/18/CE, tenendo conto degli effetti diretti e indiretti, immediati e differiti, nonché degli effetti cumulativi a lungo termine, sulla salute umana e l’ambiente. Tale valutazione del rischio fornisce pareri scientifici volti a orientare il processo decisionale ed è seguita da una decisione relativa alla gestione del rischio. L’obiettivo di tale procedura di autorizzazione è garantire un elevato livello di tutela della vita e della salute umana, della salute e del benessere degli animali, dell’ambiente e degli interessi dei consumatori, assicurando al contempo l’efficace funzionamento del mercato interno. È opportuno raggiungere e mantenere un livello uniforme ed elevato di protezione della salute, dell’ambiente e dei consumatori su tutto il territorio dell’Unione. È opportuno tenere sempre conto del principio di precauzione nel quadro della direttiva 2001/18/CE e della sua successiva attuazione”(Considerando n.2)
Anche l’allevamento di animali pone rischi per l’ambiente e la salute ancor più se si pensa che i virus, come stiamo vedendo in questi giorni, non conoscono barriere geografiche;
Pertanto, una visione coerente della governance, preceduta da una valutazione dei rischi, che è il momento in cui il ricorso al principio di precauzione sarebbe più opportuno, porterebbe ad una sola conclusione: la chiusura degli allevamenti.
Fonte grafico Oie