Quando si tratta di moda e abbigliamento la questione sostenibilità si fa sempre molto delicata. ed il greenwashing è dietro l’angolo
Da un lato bisogna stare attenti che i capi che compriamo non contengano prodotti animali, dall’altro bisognerebbe accertarsi che i metodi con cui vengono prodotti siano sostenibili in termini di impatto ambientale e di sfruttamento di altri esseri umani e delle risorse ambientali.
Quando si parla di pelle, ecopelle e similpelle questo dilemma diventa un vero e proprio rompicapo.
Innanzitutto è bene fare chiarezza sui termini ed anche sulle definizioni giuridiche.
La vera pelle è un derivato animale con un forte impatto ambientale per via del consumo idrico e delle sostanze utilizzate per la concia salvo che questa non venga fatta con i tannini naturali.
La definizione di pelle la troviamo nel Decreto Legislativo 9 Giugno 2020, n° 68, detto “Decreto Pelle” che all’articolo 2 comma 1 definisce cuoio e pelle “quelle di “un animale che ha conservato la sua struttura fibrosa originaria piu’ o meno intatta, conciato in modo che non marcisca. I peli o la lana possono essere stati asportati o no. Il cuoio e’ anche ottenuto da pelli o pellame tagliati in strati o in segmenti, prima o dopo la conciatura….”.
Dietro la produzione di pelle c’è la sofferenza di milioni di animali come dimostra questa indagine della Peta (attenzione immagini forti) tanto che è nato il Leather Working Group una sorta di ente certificatore volontario che ha dettato degli standard di qualità di tutta la filiera pelle compreso il trattamento degli animali, a questo aderiscono tra gli altri DR. Martens e Geox.
L’ecopelle è pelle di origine animale lavorata in modo più sostenibile. A seguito della Norma UNI 11427:2011 Cuoio – “Criteri per la definizione delle caratteristiche di prestazione di cuoi a ridotto impatto ambientale” quasi tutta la pelle prodotta in Italia deve rientrare per legge nella definizione di ecopelle.
La similpelle invece è un prodotto sintetico, quindi non contiene derivati animali. È vegan, ma non è detto che sia cruelty-free, e sicuramente non è eco-friendly. La produzione della similpelle crea tanti rifiuti inquinanti ed è ad altissimo impatto ambientale, è in genere ottenuta da materiali puramente sintetici come il poliuretano (sigla PU e il Poliestere sigla PL).
Sembra di trovarsi a un bivio: origine animale e basso impatto ambientale o vegan ma inquinante?
Per fortuna negli ultimi anni produttori e ricercatori stanno lavorando per trovare delle alternative vegane ed ecologiche a partire da scarti alimentari o da alti materiali biodegradabili.
Si tratta della cosiddetta, in gergo, pelle vegetale, totalmente vegan e cruelty free che in genere viene prodotta da piccole imprese ed è un prodotto a basso impatto ambientale.
Questi materiali, che derivano dalla biopolimerizzazione degli scarti organici della frutta, sono tessuti “spalmati”, perché si ottengono spalmando uno strato di resine di polimeri su un supporto di cotone.
I loro nomi brevettati sono Apple-skin che proviene dagli scarti della mela, Wineleather il materiale ricavato dagli acini d’uva e Pinatex, un materiale che proviene dall’ananas sono tre sintetici che usano resine ricavate con processi industriali. Anche se utilizzano resine naturali sono pur sempre tessuti sintetici anche se a basso impatto ambientale e con una piccola aggiunta di resine petrolchimiche, che comunque sono molto diffuse nell’industria dell’abbigliamento.
C’è anche l’Orange Fiber nata dall’idea di due siciliane Adriana Santanocito ed Enrica Arena che hanno depositato un brevetto per il procedimento volto ad ottenere i tessuti derivanti dagli scarti delle degli agrumi e di farli diventare una fibra simile al cotone.
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Pelle vegetale è un’espressione comune che però non può essere usata a fini pubblicitari o di diffusione di informazioni da parte di aziende produttrici o da rivenditori di materiali o prodotti finiti costituiti in tutto in parte da materiali alternativi alla pelle di origine animale.
E’ quanto stabilisce il Decreto Legislativo 9 Giugno 2020, n° 68, detto Decreto Pelle “Nuove disposizioni in materia di utilizzo dei termini «cuoio», «pelle» e «pelliccia» e di quelli da essi derivati o loro sinonimi e la relativa disciplina sanzionatoria, ai sensi dell’articolo 7 della legge 3 maggio 2019, n. 37 – Legge europea 2018. (20G00084)”.
Il testo è in vigore dal 24-10-2020 ed, in particolare, l’art 3 stabilisce che “E’ vietata l’immissione e la messa a disposizione sul mercato con i termini, anche in lingua diversa dall’italiano, «cuoio», «pelle», «cuoio pieno fiore», «cuoio rivestito», «pelle rivestita» «pelliccia» e «rigenerato di fibre di cuoio», sia come aggettivi sia come sostantivi, anche se inseriti con prefissi o suffissi in altre parole o in combinazione con esse, ovvero sotto i nomi generici di «cuoiame», «pellame», «pelletteria» o «pellicceria», di materiali o manufatti composti da materiali che non rispettino le corrispondenti definizioni di cui all’articolo 2, comma 1”.
Quello che più interessa chi produce o utilizza materiali simili alla pelle è l’articolo 6 che recita:
“ Fatta salva la responsabilita’ prevista al comma 5, il distributore che mette a disposizione sul mercato materiali che utilizzano i termini di cui all’articolo 2, comma 1, nonche’ manufatti con gli stessi fabbricati, sia come aggettivi sia come sostantivi, anche se inseriti quali prefissi o suffissi in altre parole, ovvero sotto i nomi generici di «cuoiame», «pellame», «pelletteria» o «pellicceria», ovvero derivati, risultati non conformi alla definizione di cui all’articolo 2, comma 1, in violazione delle disposizioni stabilite dall’articolo 3, e’ punito con la sanzione amministrativa pecuniaria da 700 euro a 3.500 euro, salvo che non dimostri la rispondenza di dette indicazioni con quelle rilasciategli dal suo fornitore nel documento commerciale di accompagnamento”.
Quindi c’è l’espresso divieto dell’uso delle parole pelle e cuoio ed i loro prefissi o suffissi che rimandino a materiali non derivati da spoglie di animali, come accade per i termini ecopelle, vegan leather e simili.
Questa è una battaglia portata avanti , e vinta, da UNIC – Concerie Italiane che orgogliosa di questo risultato si è detta preoccupata per il consumatore che veniva “confuso” da questi termini.
La lotta contro i termini che richiamano a prodotti dal cibo ai vestiti che non sono costituiti a partire da animali o loro parti ma che li hanno sostituiti, con ottimi risultati, è “all’ultimo sangue”.
Ci sono in ballo molti interessi
Interessi che hanno portato, ad esempio, a non poter chiamare più il latte di soia latte ma “bevanda vegetale a base di soia”, cosa cambia? Nulla per chi consuma questa bevanda, molto, in termini economici per chi vende latte di derivazione animale poiché oggi il consumo di bevande “alternative” è aumentato tantissimo e, certamente, non grazie al fatto che sulla confezione fosse scritto latte.
Recentemente c’è stata una battaglia simile sull’uso del termine hamburger, battaglia persa, perché in quel caso il colosso della carne di derivazione animale si è scontrato con un altro colosso, quello dei burger vegetali,
Dietro il mercato degli hamburger vegetali ci sono investimenti di milioni di euro, da quasi 5 miliardi di dollari solo negli Stati Uniti, e a Bruxelles lo hanno recepito molto bene tanto che questa volta l’hamburger vegano ha vinto.
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Le lotte intestine a colpi di decreti, provvedimenti, direttive e regolamenti sulle “false denominazioni” non finirà qui perché gli interessi economici in gioco sono molto rilevanti ma, sicuramente hanno gli anni contati.
Queste lotte, si nascondono dietro il fantomatico “diritto del consumatore ad essere informato” con l’unico obiettivo di mantenere lo status quo perché se dovessimo parlare del diritto del consumatore ad essere informato dovremmo partire dalle pubblicità ingannevoli dell’industria della carne, lattiero-casearia e anche di quella conciaria.
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