Mai come in questo periodo ci sentiamo colti da un senso d’impotenza, sgomento, incredulità, perché non conosciamo il terreno in cui stiamo camminando e non sappiamo quali imprevisti incontreremo.
E’ come se fossimo al buio dentro un bosco senza neanche una torcia.
Per non cadere stiamo fermi lì dove ci hanno detto di rimanere, ogni tanto, però, siamo assaliti dalla paura e vorremmo muoverci, scappare, riavvolgere il nastro di questo incubo e tornare alla nostra vita prima che ci lasciassero in mezzo al bosco da soli senza una torcia.
Ma non è possibile e, quindi, l’unica cosa che ci rimane da fare è procedere con l’aiuto della luce della luna ma andando piano, molto piano.
Se conosciamo il bosco ed i suoi sentieri, ci farà meno paura.
Così accade, in generale, per ogni cosa che attraversiamo, se già la conosciamo ci fa meno paura, questo vale anche per questa tragedia sociale, sanitaria ed economica che stiamo vivendo.
Prima di parlare di virus, fare teorie o elaborare congetture, che in questi giorni si stanno sprecando, partiamo dalla base e facciamoci una domanda, anzi, LA domanda: la comunicazione associata a questa pandemia, è stata corretta?
A mio parere no e proverò a spiegarvi il mio punto di vista.
Partiamo dalla prima osservazione, il coinvolgimento del pubblico nei rischi ambientali e/o sanitari è stato teorizzato già a partire dagli anni ’70 ma solo tra il 1980 ed il 1990 sono state elaborate delle metodologie per la partecipazione del pubblico nelle decisioni collettive.
Queste metodologie sono i focus group, le consensus conference, workshop e così via.
Ciò a cui mirano è creare un rapporto di fiducia tra regolatore e cittadino perché da questa fiducia discende una corretta gestione del rischio.
Senza la collaborazione del cittadino ogni gestione del rischio fallisce e per ottenere collaborazione deve scendere in campo l’esercito come stiamo vedendo in questi giorni.
Il modello unidirezionale di informazioni -e calato dall’alto- non è più accettabile ai tempi della rete globale.
Tuttavia, prima di coinvolgere il pubblico bisogna dargli i mezzi per fargli capire l’importanza della sua partecipazione.
Le comunità on line, infatti, hanno una conoscenza parziale e le loro informazioni spesso provengono da narrazioni sociali che hanno un’influenza determinante nel costruire le proprie convinzioni.
Inoltre, ed è importante sottolinearlo, gli algoritmi di Facebook e di Google mostrano all’utente le cose che gli piacciono di più non quelle più corrette.
Nonostante ciò, queste comunità svolgono un ruolo fondamentale nell’intensificarsi degli sforzi volti a creare un nuovo modello di co-produzione di scienza e regolazione sociale possibile solo se Istituzioni, scienza e società cooperano.
Ravetz e Funtowicz sottolineano come sia importante creare “peer community” poiché le persone sono più propense a collaborare, quindi anche accettare limitazioni della libertà personale, se il processo decisionale è aperto, trasparente, inclusivo credibile e responsabile.
Come ha scritto Sheila Jasanoff , docente di scienza e diritto presso l’Università di Harvard, nel suo Technologies of Humility : citizen partecipation in Governing Science, questo modo di concepire il coinvolgimento del pubblico richiede meccanismi in cui il cittadino sia stimolato ed incoraggiato a partecipare condividendo il suo sapere, la sua esperienza e le sue abilità per risolvere problemi comuni ad altri cittadini come lui.
Le malattie infettive sono un terreno in cui il coinvolgimento è importantissimo per controllare e prevenire i rischi della diffusione dei virus.
Se le Istituzioni persistono nel mantenere un metodo d’informazione asimmetrico la gestione del contenimento diventa difficile.
E’ il motivo per il quale in questa pandemia Covid-19 ci sono state così tante infrazioni delle regole che hanno portato alle restrizioni che stiamo patendo oggi.
Chiunque voglia impiegare un po’ di tempo e fare una ricerca su Pubmed, una sorta di biblioteca delle pubblicazioni scientifiche, potrà facilmente leggere quante pubblicazioni ci sono che avvisavano del rischio pandemia.
Per questo ritengo che alla domanda se la comunicazione sia stata adeguata alla situazione, devo dare una risposta negativa.
Nel libro Contagio del 2003- ai tempi della prima epidemia SARS- leggiamo:
“L’emergenza Sars ha messo in evidenza come sia importante avere a disposizione queste strutture (ristrutturazione e riqualificazione della rete ospedaliera di malattie infettive). Ma anche come sia necessario favorire l’integrazione tra strutture ospedaliere e strutture territoriali di sanità pubblica e potenziare centri d’eccellenza che sappiano unire le capacità di assistere nuove malattie infettive con potenzialità di diffusione epidemica, di allestire una diagnostica avanzata, di sviluppare nuovi approcci di analisi epidemiologica e di controllo delle epidemie”.
Nel 2003 durante l’emergenza SARS il monito era stato lanciato, quindi, cosa non ha funzionato in questi 13 anni?
Visto ciò a cui stiamo assistendo, e subendo, direi nulla.
Sempre nel libro leggiamo un’intervista al Prof. Frank Plummer, che alla domanda del giornalista:
“ Come reagirebbe il sistema sanitario a un’epidemia più grande di quella della Sars? ”
risponde
“ Per fronteggiare queste situazioni c’è bisogno di grandi risorse. E’ quello che serve lo devi aver preparato prima, non puoi pensare di formare del personale sanitario o di mettere in piedi un sistema di sorveglianza nel bel mezzo dell’ epidemia. Tutto deve essere pronto prima”.
E veniamo ora agli animali, quelli che in tutta questa storia hanno un ruolo determinante ma di cui si parla troppo poco pur essendo gli attori principali di questa pandemia.
Nel caso della trasmissione di questo virus, il maggiore accusato è il pipistrello, che se fosse stato lasciato libero di vivere la sua vita non avrebbe infettato nessuno.
La maggior parte delle epidemie si sono sviluppate dalla Cina, anche la peste nera più di 650 anni fa, a causa della promiscuità tra l’essere umano e gli animali in particolare tra uccelli, maiali e uomo in quella parte del mondo.
Facendo un analisi delle epidemie, partendo della Spagnola, constatiamo che uno dei principali vettori dei virus è il maiale.
Solo per fare un breve elenco la Spagnola del 1918, l’asiatica del 1957, L’Honk kong del 1968 l’H1N1 del 1976, del 1986 e del 1988 sono di derivazione suina.
Nel 2003 Jay A. Fishman nell’articolo SARS, Xenotransplantation and Bioterrorism: Preventing the Next Epidemic scriveva, “L’OMS stima che la prossima pandemia influenzale potrebbe causare oltre 2 milioni di ricoveri e 650 000 decessi entro 2 anni nel solo mondo sviluppato. I ruoli dei serbatoi di infezione non umani sono rilevanti… I virus dell’influenza sono agenti patogeni naturali di uccelli, suini e umani. I maiali vengono infettati dall’influenza umana e aviaria oltre ai virus dei suini. Focolai di influenza si verificano quando più virus di diverse specie infettano contemporaneamente i suini, si verifica un riassortimento genetico (miscelazione) ed emerge un nuovo virus con nuove caratteristiche di virulenza e nuovi epitopi di superficie (spostamento genetico). Nuove varietà emergono ogni pochi anni…Queste infezioni derivano sempre più da fonti animali dal momento che abbiamo alterato l’ecologia del mondo in cui viviamo. Le infezioni zoonotiche possono aumentare in virulenza poiché si adattano a nuovi ospiti, in modo accidentale, come gli esseri umani”.
Ancor prima, nel 1998, Webster scriveva che poiché i maiali ed i volatili sono i principali vettori di virus influenzali di vari gradi ed entità e che solo il 10% di chi lavora a contatto con i maiali sviluppa gli anticorpi per la febbre suina bisognasse cambiare i metodi di allevamento
L’influenza di origine zoonotica non è una malattia che si può eradicare perché ha molti serbatoi di animali, le pandemie sono state tutte di origine animale, pertanto, sempre, per tornare alla domanda iniziale, questo è stato comunicato?
I cittadini lo sanno?
Se lo sapessero sarebbero disposti a cambiare, ad esempio, le proprie abitudini alimentari?
Il caso mucca pazza è una dimostrazione di come le abbiano cambiate, il consumo di carne rossa è in caduta libera dall’anno in cui è esploso il caso.
Le persone hanno dimostrato che se conoscono l’esistenza di un rischio o pericolo cambiano le proprie abitudini.
Il deficit model, ossia il modello che da per scontato che il pubblico sia di per sé ignorante ed emotivo, e non possa capire, è un modello fallimentare che non porta nessun beneficio in una situazione come quella che stiamo vivendo.
Questa pandemia deve essere l’occasione per ridiscutere le forme di partecipazione dei cittadini alle scelte collettive, perché cosi alla fine, oltre alla riscoperta della solidarietà, avremmo anche capito che informare i cittadini non vuol dire- se fatto nel modo giusto- confonderli, ma renderli consapevoli.
Quello che non fa lo Stato lo fa, in parte, il giornalismo, proprio ieri sera è andata in onda la puntata dal titolo Il virus è un boomerang, della trasmissione Indovina chi viene a cena condotta dalla giornalista Sabrina Giannini
Queste informazioni non devono essere rivolte ad un pubblico di nicchia, ma veicolate in ogni modo, in qualunque modalità per far comprendere a tutti che tutto è collegato e di questo se ne devono occupare gli Stati a livello globale.